Questo comunicato è scritto in maniera unitaria dalle realtà politiche, enti anti-tratta, associazioni, collettivi e individualità che hanno dato vita a “Sex Workers Speak out: Contro la Criminalizzazione, per i diritti”, congresso nazionale di sex worker e realtà alleate tenutosi al Mit di Bologna lo scorso giugno.
Torniamo a unire le nostre voci per prendere una posizione netta contro una sentenza che riteniamo inaccettabile. Un verdetto pregno di razzismo e che va a giudicare la sfera della vita intima e personale di una donna migrante.
Il vissuto tragico di una donna nigeriana di 27 anni, che ha denunciato il suo sfruttatore e trafficante, è stato liquidato dalla Corte d’Assise di Palermo con una sentenza che non la riconosce né come vittima di tratta né di riduzione in schiavitù ma solo di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione. Una decisione che porta con sé la delegittimazione del faticoso lavoro di ricostruzione che immaginiamo abbia fatto la cittadina nigeriana insieme alle figure professioniste dell’antitratta che l’hanno sostenuta.
Citiamo le motivazioni:
“[…] appare piuttosto una prostituta volontaria. Da inquadrare, più correttamente nella nota diffusa categoria delle cosiddette sex-workers ossia nella categoria di quelle donne che preferiscono dedicarsi alla prostituzione piuttosto che lavorare o svolgere lavori poco remunerativi, come potrebbero esser quello della ‘shampista’ o di far capelli o di ‘far treccine’ o di lavorare presso qualcuno come domestico (etc etc)”.
Segue:
“Questa ‘classificazione’ della prostituta, naturalmente non contrasta con la presenza di uno sfruttatore e favoreggiatore, che a sua volta si giovi delle prestazioni della lavoratrice e le agevoli, per rimpinguare anche le proprie casse”.
Signor giudice, Lei forse non lo sa ma è dal 2000 che il Sistema Antitratta Nazionale esiste su tutto il territorio nazionale. Vi lavorano professioniste che accolgono vittime della tratta degli esseri umani e di grave sfruttamento; effettuano una faticosa ricostruzione della storia migratoria di donne cis e trans e uomini che escono da una condizione di schiavitù, di prostituzione forzata e altre forme di gravi violenze oltre ai diritti negati sia nei loro paesi di origine che nei paesi di destinazione.
Una parte di queste storie raccontano di violenze fisiche, violenze psicologiche, violenze sessuali subite nei lager libici, di privazioni di cibo, della sete, di privazioni di libertà di movimento, di un debito criminale, del patto siglato con rito vodoo e di continue minacce contro la propria famiglia oltre all’isolamento in una società poco accogliente.
Signor giudice, Lei forse non lo sa ma non è scontato per chi esce da una condizione di schiavitù esporsi e denunciare il proprio sfruttatore. Non sa quanta fatica sarà costato alla cittadina nigeriana ricordare le varie tappe del suo viaggio migratorio e che a tratti può sembrare contraddittorio. Non sa quanto coraggio ha avuto questa donna per esporsi contro l’organizzazione criminale e fidarsi del sistema giudiziario italiano.
Ci sembra che questa sentenza non abbia tenuto conto di un elemento fondamentale, ossia la posizione di vulnerabilità della donna che, come definito anche nella Direttiva 2011/36/UE, indica una persona che non ha altra alternativa reale e accettabile che quella di soggiacere allo sfruttamento e ad altre forme di abuso. È innegabile che, purtroppo, per le donne in condizioni di vulnerabilità si intersecano anche dinamiche di genere e relazioni di potere.
In un colpo solo la sua sentenza tenta di gettare discredito sul racconto di questa donna. Accoglie la denuncia e condanna lo sfruttatore. Ma va oltre. La giudica.
Perché a una donna migrante si nega di avere un ruolo attivo nel suo percorso? Il giudice la incolpa forse di aver esercitato un minimo di agency?
Tutto questo rientra in una cultura razzista e colonialista per cui si è “meritevoli” di aiuto solo se si soddisfano al cento per cento i criteri della vittima per antonomasia e, anche in questo caso, si dovrà espiare l’essere stata “salvata” e rimanere in uno stato di gratitudine perenne di fronte alla presunta egemonia culturale della fortezza Europa.
Pur non conoscendo molto della storia della donna migrante in questione, questa sentenza è esemplare rispetto a un discorso colonialista che continua ad essere perpetrato sulla pelle di molte donne cis e trans migranti provenienti dal sud globale e che vengono rinchiuse in una narrazione che le vede solamente come assistenti familiari, addette alle pulizie, prostitute.
Se questo è uno sguardo che potrebbe apparire come mera registrazione neutrale della realtà è piuttosto un’operazione che la plasma costantemente: assicurandosi così che alcune persone continuino a ricoprire un ruolo subalterno, da una posizione marginalizzata.
Non abbiamo ancora letto tutta la sentenza ma possiamo affermare senza dubbio che sono stati utilizzati un linguaggio e uno sguardo razzista nell’immaginare gli unici impieghi accessibili a una donna migrante razzializzata e proveniente dal sud globale: lavori “femminili”, lavori di cura, “a bassa qualifica” e categorie lavorative invisibilizzate, sfruttate, poco remunerate e senza tutele.
Vogliamo ricordare che in materia di legge rispetto alle vittime di tratta e di grave sfruttamento, l’Art. 18 D.lgs 286/98 prevede che una persona POSSA denunciare la sua condizione di schiavitù e accedere al programma unico di emersione, inclusione e assistenza. Esiste uno strumento fondamentale come Le linee guida dell’UNHCR che danno una chiara indicazione sugli elementi identificatori di una vittima di tratta. Lo stesso articolo di legge prevede che una persona acceda al Programma Unico anche se non ha denunciato; è il cosiddetto percorso sociale con il supporto di enti riconosciuti dal Dipartimento Pari Opportunità.
Nell’”Indagine statistica su un campione rappresentativo di fascicoli definiti con sentenza relativamente ai reati ex art. 600, 601 e 602 del codice penale” condotta dal Ministero della Giustizia sulla tratta degli esseri umani, si evidenzia come solamente il 37,6% delle vittime presenta denuncia spontaneamente. Una percentuale relativamente bassa in confronto al numero elevato di vittime di tratta e dello grave sfruttamento. Grazie alla sua denuncia, l’esempio della donna avrebbe potuto incoraggiare altre persone nelle stesse condizioni a denunciare ma, se questo è l’esito, il risultato è un precedente inaccettabile e pericoloso che va a disincentivare questa possibilità e a rafforzare l’agibilità delle organizzazioni criminali che continueranno a lucrare.
Un’altra cosa ci preme chiarire. Il discorso sul sex work e per i diritti non può essere utilizzato in maniera strumentale e in antitesi per negare il vissuto di una persona che denuncia una condizione di sfruttamento.
Ricordiamo che le organizzazioni di sex worker sono le prime ad essere sempre state in prima linea contro tratta, coercizione, sfruttamento, riduzione in schiavitù.
Lottare per il riconoscimento dei diritti lavorativi, per la depenalizzazione e la decriminalizzazione del lavoro sessuale, battersi contro le politiche migratorie di stampo razzista e rifiutare con forza il modello nordico, significa in prima analisi lottare contro tutto ciò che sta all’origine dello sfruttamento nel senso più ampio.
Inoltre è davvero paradossale che in una sentenza si parli di sex work e scelta quando la legislazione italiana nemmeno contempla questa possibilità e la respinge (vedi ddl Maiorino).
Per concludere, esprimiamo la massima solidarietà e vicinanza alla sorella nigeriana: Non staremo qui a guardare da lontano cosa accadrà.
Noi crediamo alla donna che ha denunciato i suoi aguzzini e non lasceremo che la sua storia, la sua testimonianza, la sua verità vengano messe in discussione.
“Cercavi giustizia, ma trovasti la legge”. Hai però anche trovato una marea di persone pronte a lottare insieme a te e per tutt*.
FIRME (in ordine alfabetico)
- Collettivo KinkyGirls
- Collettivo Ombre Rosse
- Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute APS
- Euphoria Trans FVG APS
- Libellula Italia APS
- MIT – Movimento Identità Trans Bologna
- SWIPE – Sex Worker Intersectional Peer Education
- S.W.I.R – Padova Hardcore
FIRMANO ANCHE (in continuo aggiornamento)
- Antinoo Arcigay Napoli
- Associazione Tampep ETS – Torino
- Cabaret Voltaire 1916 Bari
- Cagne Sciolte
- C.a.t.a.m.i.a.ti. Collettivo Palermo & lacameradivalentina.it (Gea di Bella)
- Collettivo Marielle Roma Tre
- Collettiva Matsutake
- ideadestroyingmuros
- Laboratorio Smaschieramenti
- La Vivaia TFQ
- Legal Clinic Uniroma3
- Mujeres Libres Bologna
-
- Ora d’Aria Onlus
- Pole Dance Ribelle Torino
- PrEP in Italia
- PriotPride
- Progetto Sanaa
- Radicali Italiani
- Re-Vulva la rivoluzione dal basso
- Rivolta Pride Bologna
- Rosario Gallardo
- Spazio Queer Novara
- Tampep European Network for the Promotion of Rights and Health among Migrant Sex Workers
FIRME A TITOLO PERSONALE
- Barbara Bonomi Romagnoli, giornalista femminista
- Bianca El Malek, attivista e sex worker
- Damiano Barbagallo
- Doha Zaghi
- Porcah Ontas
- Valentine aka Fluida Wolf, attivista transfemminista e traduttrice militante
- Valeria Blandizzi, psicosessuologa
- Vania Martinelli
Invitiamo tutte le associazioni, collettivi, enti, persone etc che si rispecchiano in queste parole ad appore direttamente la vostra firma a questo link https://pad.cisti.org/p/Raccolta_Firme_Sentenza_Palermo#L75
#s3xworkerspeakout
Per Info: sexworkerspeakout@gmail.com