Sono femminista, sono sex worker

Scrivo questa lettera aperta a partire dal mio vissuto personale, che ho fatto tanta fatica a
raccontare per queste ragioni:

1) Lo stigma: chi lo fa o lo ha fatto in precedenza ti segna a vita

2) Il pregiudizio: vi giudicheranno perché qualsiasi sia stato il motivo della vostra
SCELTA, e sottoscrivo questa parola, non siete state abbastanza capaci di trovare
un altro lavoro dignitoso.

3) La morale sulla “vendita del corpo”, come se negli altri lavori non accadesse.

Il mondo della prostituzione è vasto vi sono tante forme per esercitare: in privato, nel web
e nei locali sono le forme più conosciute. Vi è sfruttamento, come giustamente scrivono le/i attivist*, ma in fondo in quale settore lavorativo non c’è?

Io ci sono entrata insieme alla mia coinquilina quando avevo 24 anni e per tre anni è stata
la mia attività principale, il salario che mi permetteva di pagare per la mia sussistenza e le
spese. Eravamo stufe di farci sfruttare a Roma per pochi euro come cameriere o nei call
center o nei supermercati, stufe marce delle manate sul culo nei pub da parte dei
proprietari, dei contratti a nero, di essere spremute come limoni infilando 3 lavoretti di
merda e dover sottostare al nero degli affitti dei padroni palazzinari. Volevamo tutto e
questo lavoro ci ha permesso per tre anni di essere autonome. Certo, abbiamo scelto noi,
ragazze bianche occidentali e istruite nelle scuole con il nostro diplomino utile solo ad
essere sfruttate nel precariato. Abbiamo risposto ad un annuncio, ci siamo registrate come
ragazze dello spettacolo, il contratto per ragazze di sala e via, è iniziata così. Per tre anni
ho vissuto di notte nei locali notturni, la prestazione la stabilivamo fra di noi e sotto una
certa cifra non si scendeva: una concertazione fra le stesse lavoratrici, esperienza che ho
fatto fatica a trovare fuori, nel mondo diurno, che si definisce moralmente autorizzato a
sfruttare.

Ho lavorato con ragazze che avevano un’alta preparazione scolastica e chi no, ragazze
normalissime e soggettività lgbtqia+ (sì, esattamente, riguarda anche noi) e ragazze che
venivano da svariati Paesi. Ora la chiamerei sorellanza perché il femminismo mi ha
insegnato a trovare le parole, allora la chiamavo complicità. Certo, i primi tempi non
sapevo come gestire la situazione con i clienti e cosa fare, chiedevo alle altre come si
comportavano, ero impacciata. Se mi trovavo in difficoltà con le ragazze ci scambiavamo i
numeri e quando si era nel locale c’erano dei segnali per interrompere il tavolo e se non
potevi farlo qualcuna ti aiutava a toglierti da una situazione poco piacevole. Spesso chi era
da più tempo dava consigli alle ragazze appena arrivate e sui clienti. Quando staccavo
preferivo non essere sola e spesso uscivo dal locale con un’altra, quando era possibile.

Il moralismo che la nostra società ci inculca ti inibisce finché comprendi che hai
consapevolezza di te stessa e. allora, vai come un treno, smonti dall’interno la gerarchia di
potere e… vedi come i ruoli possono ribaltarsi. È un lavoro: si offre una prestazione. È a
causa deIl moralismo che narra questo lavoro esclusivamente come mercificazione dei
corpi che ancora ci ritroviamo nella diatriba tra abolizione e riconoscimento.

In questo testo descrivo la mia esperienza personale che non è uguale per tutt*, ognun*
ha un suo vissuto e percezione: chi prende parola lo fa partendo da sé ed ecco perché è
violenta la pratica di parlare per conto dei/delle sexworker.

Si possono creare delle solidarietà tra lavoratrici? Sì, è la mia risposta.
Ho versato i miei contributi allo Stato e ciò che più mi fa rabbrividire è che devo
nascondere un pezzo della mia vita lavorativa ad altri, l’unico lavoro che io ho scelto. Il
resto, infatti, è stato raccogliere ciò che avevo intorno ed essere sfruttata veramente tra
capi e capetti che senza autorizzazione esercitano il potere. Questo dovrebbe farci
esplodere di rabbia: lo sfruttamento sistematico nella gerarchia di potere. Lavoretti
sottopagati, ricatti subiti per un salario di merda ma che ipocritamente accettiamo perché
moralmente sono lavori accettabili, anche se stai vedendo le braccia, la tua vita in balìa
del mercato, dove altri decideranno della tua vita… ma troviamo queste scelte più
“dignitose”. Perché?

È più giusto farsi sfruttare in un qualsiasi lavoro, ma se scelgo di essere sexworker sto vendendo il mio corpo e mi sto facendo sfruttare anche se ho scelto io chi, come, dove quando? È un paradosso grosso quanto un palazzo perché mi sento più sfruttata adesso come lavoratrice che quando facevo sexwork! Lottare per avere diritti sul lavoro è sacrosanto, sia che pulisci i pavimenti, o che tu sia una cassiera, un’operaia in produzione
o una cameriera: non ci sono lavoratrici e lavoratori di serie B. Trovo veramente
contraddittoria la questione dello sfruttamento perché c’è chi prende parola sui/sulle
sexworker e non si spende minimamente per esprimere indignazione sullo sfruttamento
sistemico che avviene tutti i giorni nei luoghi di lavoro.

La prima osservazione che mi hanno sempre fatto quando ho dichiarato di essere stata
una sexworker é “lo hai fatto perché sono stata costretta dagli eventi”. Sinceramente ho
scelto un lavoro che mi dava un salario fra i pochi che c’erano.
– Mi hanno sfruttata?
– No, negli altri lavori invece sì, ed ancora oggi lo sono!
– Perché hai smesso? Evidentemente non reggevi la situazione…
– No! Ho cambiato lavoro come tanti altri!

Dovremmo domandarci invece: perché continuare a trattare da “salvatrici femministe” le/i
sexworker? Quali sono invece le loro/nostre richieste? Dovremmo smettere di
infantilizzare e cercare sempre i punti deboli delle loro/nostre ragioni o del perché fanno
questo lavoro. Sono stata una sexworker e conosco benissimo lo stigma che ci si porta
dietro, gli sguardi, i giudizi e pregiudizi.

Essere attivista transfemminista impegnata mi ha dato la forza di uscire fuori e, così come
mi batto nelle lotte delle lavoratrici nelle fabbriche, lo faccio con la stessa passione
affinché le/i sexworker possano essere riconosciut* come qualsiasi altro settore, a partire
dalle loro istanze, dalle pratiche di auto tutela, dai progetti che costruiscono. Negare le loroesistenze significa condannare alla clandestinità ed esporre allo sfruttamento. Si possono costruire dal basso delle reti fra i/le lavoratori/lavoratrici e serve il contributo di alleat*.

Trovo profondamente borghese il perbenismo con cui si blatera delle “altre” vite e delle
vite/scelte altrui. Lo scrivo da bianca, occidentale, che ha studiato nelle scuole di
un’Europa che sfrutta milioni di migranti per fare i lavori umili e si barrica dietro alle
associazioni di donne che firmano documenti contro la prostituzione. Le stesse donne che
magari nelle loro case hanno la migrante a fare la domestica o che filano dritto davanti alle
addette delle pulizie nei centri commerciali, dove possono fare shopping. Le stesse donne
che nelle loro case hanno oggetti prodotti nelle fabbriche da donne sfruttate, che
indossano vestiti prodotti da manodopera straniera sfruttata… ma questo è un altro tema.
Ciò che mi preme è smascherare il discorso stigmatizzante sul sexwork perché
distribuisce “valore” diverso ai corpi e alle vite delle persone, per cui alcune sono da
“redimere” secondo morale, mentre le altre possono benissimo crepare. Sarebbe infatti
troppo scomodo rimettere in discussione il nostro stile di vita occidentale bianco… meglio
spostare l’attenzione su chi invece si autodetermina per condannar*.
Appoggiare le/i sexworker in un periodo come questo con un progetto di solidarietà
significa non far rimanere nessun* da sol*: questo è ciò che il femminismo insegna.
Non potrò contribuire perché la pandemia ha messo anche me in difficoltà finanziarie.
Posso però esprimere la mia solidarietà ed il mio sostegno politico-

Un abbraccio,
Maddy Manca

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